Dal Vangelo secondo Matteo Mt 10,37-42
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà…”.
Con il vangelo odierno, tratto ancora dal “discorso missionario” (Mt 10), Gesù spiega cosa significa essere suoi discepoli, vivendo come veri figli di Dio. Gesù è il Signore della vita; è Colui che è venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf Gv 10,10); è il Dio fatto uomo che, con la sua vita, ha testimoniato la vera vita e, con la sua morte e risurrezione, ha aperto la strada dell’umanità verso la vita eterna. In questo brano, Gesù parla di vita ma, insieme a ciò, parla anche di distacco dagli affetti più cari, parla di croce che ognuno deve caricare sulle proprie spalle, parla di disponibità a donare totalmente la propria vita pur di realizzarla pienamente.
Chi non prende la sua croce…
Parlando di vita, Gesù usa un linguaggio “di morte” ma, in questo modo, comunica la verità, dona l’unica luce che può illuminare il cammino di ogni uomo. E questa luce sta proprio nella realtà nella croce: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (v. 38); cioè: non può dirsi cristiano, non testimonia la sua fede in me. Con queste parole, Gesù non chiede di andare in cerca delle sofferenze o dei dolori ad ogni costo, non invita a vivere perennemente in un clima di tristezza e di lutto. Prendere la nostra croce, che è anzitutto la “sua”, significa invce assumere la croce come criterio di vita, metro di giudizio per ciò che pensiamo, diciamo, facciamo. Il che significa: essere disponibili a fare la volontà di Dio fino in fondo nell’obbedienza filiale a Lui e nell’amore sincero verso il nostro prossimo. Da questo criterio di fondo, deriva anzitutto la necessità di riconoscere Dio come Padre e di riconoscere noi stessi come figli, chiamati ad essere docili alla sua Parola e accoglienti verso il suo amore. Tutto questo si manifesta, in concreto, nella disponiblità ad amare i propri cari con lo stesso amore che Dio manifesta verso di noi; ma si manifesta anche, nella convinzione che Lui, il Signore, che deve occupare veramente il proprio posto nel nostro cuore e nella nostra vita. È Dio, infatti, Colui che ci ha amati per primo, mandando a noi Gesù come vittima per i nostri peccati e fonte della nostra vita; è Dio che continua a volerci bene, attraverso il suo amore misericordioso; è Dio l’amico che non vediamo, ma che possiamo amare attraverso le persone che vediamo e con cui condividiamo la nostra vita. Dalla croce, riconosciuta come criterio di vita, deriva anche la necessità di riconoscere la presenza di Dio nel nostro prossimo e, quindi, di riconoscerci tutti come fratelli e sorelle in Cristo, animati dall’unico Spirito di santità e di amore. Ciò si manifesta, in concreto, nella disponibilità ad ascoltare, a comprendere, a perdonare chi ci ha offeso; nella disponibiltà a compiere autentici gesti di carità, in nome di Cristo e per amore di Cristo…
Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.
Amare il Signore più di ogni altra cosa significa, di fatto, accoglierlo in noi, fargli posto nel nostro cuore e nella nostra vita. Ciò vuol dire accogliere in noi la sua Parola, che egli ci ha rivolto come Profeta, parlando a nome di Dio e facendoci conoscere la sua volontà: una volontà di salvezza e di pace per tutti i suoi figli. Anche noi, infatti, siamo chiamati ad essere profeti come Cristo e con Cristo, cioè: persone che costruiscono la propria vita sulla base del Vangelo, che cercano di interpretare la storia con la sua “logica” di carità, che si impegnano a illuminare con la sua luce di verità le realtà del mondo, anche quelle che possono sembrare più lontane e più estranee rispetto a Cristo e al Vangelo. Come profeti, inoltre, siamo chiamati anche a saper dare un buon consiglio, a saper dire una buona parola, trasformando la Parola di ieri in un messaggio efficace per il nostro tempo. Acoogliere in noi Cristo, inoltre significa mantenerci fedeli all’Alleanza che Dio ha sancito con tutti noi attraverso la croce. Ogni volta che si celebra l’Eucarestia, il Signore rinnova questo patto di amicizia e di fedeltà, e ci dona il suo Pane per sostenere la nostra risposta di fede e la nostra adesione a Lui. In questo modo, egli stesso ci rende giusti, cioè sempre più fedeli agli impegni della vita cristiana, sempre più capaci di rispondere alle esigenze di questa alleanza nuova ed eterna. Dio, il giusto per eccellenza, è colui che rimane sempre fedele alle sue promesse; Dio è colui che, alle nostre disobbedienze e infedeltà, risponde con l’invito a ritornare a Lui, per essere da Lui purificati con la forza del suo amore misericordioso, per ricevere da Lui la forza di vivere in pienezza la nostra vita cristiana. Amare il Signore, quindi, ci rende capaci di amare veramente il nostro prossimo, compiendo gesti di vera carità, esprimendo la nostra fede anche con il semplice dono di un bicchere d’acqua. Perché, come ci ha detto Gesù: “Ogni volta che avrete fatto ciò a uno di questi piccoli, l’avrete fatto a me” (cf Mt 25,40).