Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 1,6-8.19-28
Che bella questa luce. Leggera, sfumata nel suo filtrare solo se testimoniata. Non è luce da riflettore. Diretta. Imposta. Ma una luce capace di dare significato e vita. Una luce che sola permette la risposta alla domanda, a l’unica domanda cui conta veramente rispondere: “chi sei?”. A noi magari verrebbe da portare col curriculum: Giovanni è strabiliante . Rimanda ogni titolo. Non è Elia, non è profeta. Ma risposta. Risposta ad un appello di vita e di amore assoluto, voce di uno che grida nel deserto. Già, il deserto. Viviamo in un contesto in cui questa immagine risulta desueta, caduta. Imbrigliata in una fisicità distante. E invece. Deserto è una complessità di vita che frammenta in tempi e luoghi, rendendo difficile una sintesi. Deserto è l’egocentrismo di una società che pensa di aver visto tutto, di poter sperimentare e trasformare ogni sfumatura di dubbio in realtà oggettiva, e irreversibilmente dallo stupore e dal “farsi bambini”. Deserto è la distanza che ci inchioda le nostre case, ai nostri lavori. Dove di fronte a un lutto, a una fatica drammatica di una persona vicina, sappiamo solo dire “mi spiace”. Perché se rallentiamo a raccogliere chi cade perdiamo il ritmo anche noi. In Giovanni c’è un’indicazione forte, perentoria: rendete dritta la via del Signore. È quella l’unica strada. Anche con poca acqua, e una voce roca poco portarta all’annuncio. L’unico fondamento che non tradisce, e orienta tra le dune, è quell’amore che ci vede colmi di dignità e chiamati a rispondere. Personalmente. Poi c’è quella domanda. Dei Farisei. Una rasoiata cognitiva, un puro passaggio di Logos. “Perché battezzi se non sei il Cristo?”.
Ineccepibile da un puro punto di vista argomentativo. Ma la vita è di più. È chiamata, è passione, è risposta, tra debolezze e brutture personali, a un amore che permette alla persona la massima realizzazione. Dove la caduta non è il compimento di un fallimento. Ma l’occasione per sentirsi rialzare. Quella luce non è una luce intellettuale. Ma un amore che sa indirizzare la vita, e al quale “non siamo degni di sciogliere i legacci del sandalo”. Ma che possiamo chiamare Padre.