“SERVO DI DIO PIETRO PRIVITERA, CHÉ PERCORRESTI BENEDICENTE LE NOSTRE CAMPAGNE, PREGA PER NOI”.
Tra le figure di santità che hanno segnato ed arricchito la Chiesa di Monreale, nel corso del Novecento, spicca la figura di un’umile questuante cappuccino, proveniente da Catania: il servo di Dio fra Pietro da San Pietro Clarenza (1881-1939).
Pietro Alfio Giuseppe Privitera, quartogenito dei coniugi Francesco ed Anna Lombardo era nato infatti in un paese all’ombra dell’Etna, S. Pietro Clarenza, ‘8 novembre 1881, lo stesso anno in cui il conterraneo Giovanni Verga pubblicava il capolavoro del verismo I Malavoglia.
Fin da piccolo Pietro ricevette nella sua famiglia una profonda formazione alla vita cristiana, permeata di preghiera, lavoro e impegno, fortificata dai sacramenti dell’Eucarestia e della Confermazione, ricevuti con gioia e consapevolezza.
Si direbbe che Pietro crebbe, avendo presento i valori autentici della vita, permeati di rispetto, nella serena convivenza con gli altri membri della famiglia, riuniti ogni sera attorno ai genitori per la recita del santo Rosario.
Finiti gli studi elementari, si presentò la prima scelta dolorosa: Pietro avrebbe voluto continuare gli studi, in vista anche di un desiderio non troppo nascosto d’essere prete, ma le esigenze della famiglia numerosa, fecero decidere il padre di portarselo come aiuto stabile nel lavoro dei campi.
Pietro non ne fece un dramma esistenziale, e si preparò con gioia a scoprire, molto presto per la sua età, quanto sudore costi il pane quotidiano. Al lavoro, a volte duro e ingrato, Pietro affiancava un’intensa vita spirituale che alimentava con la preghiera, la partecipazione alla Messa domenicale e le opere di carità.
Pietro non esitò, nel violento terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse Messina e Reggio Calabria, ad offrire la sua opera. Si trattava naturalmente di una goccia in un mare di sofferenze, eppure il giovane di San Pietro Clarenza arrivò a Messina col suo carro, lavorando di pala per sgombrare macerie, ma, soprattutto, per confortare i sinistrati perché non cedessero alla disperazione.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, definito dal papa Benedetto XV “inutile strage”, Pietro Privitera, come tutti i suoi coscritti, venne chiamato alle armi il 7 febbraio del 1916, con destinazione Corleone prima e Monreale dopo, prima di essere trasferito nel luglio dello stesso anno sul fronte, tra il Carso e Monfalcone.
Fu proprio durante il soggiorno a Monreale che il trentacinquenne Pietro venne in contatto con i frati cappuccini della locale Casa Santa e in modo particolare con il padre Dionigi da Gangi che gli regalò un libro di meditazioni sulla Passione di Cristo, come viatico per i giorni oscuri della guerra.
Anche sul fronte, il maturo soldato siciliano non attenuò minimamente il suo tenore di vita spirituale, anzi seppe trasformare il “terribile quotidiano” in occasione di testimonianza e santità, come seppe fare sul versante poetico Giuseppe Ungaretti che, proprio in quel contesto di morte, scriveva: “Non sono mai stato/tanto attaccato alla vita”.
E fu proprio sul fronte di guerra che Pietro, come testimonierà in seguito fra Celestino da Borgetto, “fece la promessa che si sarebbe fatto cappuccino se fosse tornato incolume”. Venne rimandato infatti a Monreale in modo insperato nel maggio 1918, quasi alla fine delle azioni belliche, e congedato definitivamente nell’agosto dello stesso anno.
Con i suoi 37 anni Pietro si trovò ad esercitare le funzioni di capofamiglia, essendo morto nel 1910 il padre. La buona mamma Anna, da parte sua, ogni tanto incoraggiava il figlio a provvedere alla sua sistemazione accasandosi con una donna, ma la risposta era sempre la stessa: “poi ci penso…”.
Ma un giorno, sistemate le sorelle ed essendo morta anche la mamma, siamo nel 1919, Pietro annunziò la sua partenza con una frase sibillina che lasciò tutti di stucco: “vado a tentare la fortuna; mi vado a fare frate a Monreale”.
Sulla soglia dei quarant’anni, il 12 marzo 1920, Pietro Privitera si accomiatò dai suoi per bussare alla porta del convento dei cappuccini di Monreale, chiedendo di esservi ammesso come semplice fratello laico, data l’età.
Ma, nonostante la maturità di colui che avanzava la richiesta, la genuinità della sua fede, l’integrità della sua vita e la sincerità della scelta che non erano sconosciute a quei frati, l’accettazione come postulante fu differita di un mese.
Il 15 maggio 1921, nel convento di Caccamo, nel corso di una celebrazione semplice ed austera nello stesso tempo, Pietro Alfio Giuseppe Privitera riceveva il saio della prova, iniziando l’anno dì noviziato, sotto la guida esperta del maestro padre Ignazio da Bisacquino, con il nome di fra Pietro da San Pietro Clarenza.
L’anno dopo, il 20 maggio 1922, fra Pietro veniva ammesso alla professione dei voti religiosi di obbedienza, castità e povertà, iniziando così la “carriera della minorità” nell’Ordine dei cappuccini.
Ancora una volta la destinazione del neo-professo fu la Casa Santa di Monreale, con un compito specifico: “addetto alla questua, in aiuto di fra Salvatore da Casteltermini”. Molto presto fra Pietro sperimentò sulla sua pelle la difficoltà di “aiutare” fra Salvatore che, forte della sua anzianità nella vita religiosa, aveva piuttosto bisogno di un’incudine che di un aiutante, col suo carattere che è eufemistico definire “rigoroso ed autoritario”.
Fra Pietro rispondeva alle esplosioni verbali di fra Salvatore con un “sia tutto per l’amor di Dio”, convinto davvero che tutto fosse per il suo bene anche se
confratelli, all’unanimità, sono stati concordi nell’affermare che “solo fra Pietro poté convivere ed esercitare il proprio ufficio con fra Salvatore da Casteltermini”.
Questo atteggiamento non stupisce perché fra Pietro desiderava essere, come leggiamo in un suo scritto, “il vero asino dei Reverendi Padri Cappuccini”. Una definizione, quella dell’umile questuante di San Pietro Clarenza, che nell’agiografia cappuccinesca richiama la bisaccia, strumento indispensabile di santità. Gli impervi sentieri delle campagne e delle montagne nel poligono tra Monreale, San Cipirrello, San Giuseppe Jato e Partinico conobbero l’instancabile andirivieni di fra Pietro, in una laboriosità condita molto spesso dalle intemperie, dall’umiliazione di battute salaci e dall’incertezza di una vita randagia che si appoggiava ad ospizi di fortuna o molto spesso sperimentava i rigori di notti passate all’addiaccio.
Nel suo andare tra masserie, I frantoi ed aie, tra Pietro offriva le sue braccia e mescolava il suo sudore con quello dei contadini perché, egli lo sapeva assai bene, era il sudore stesso di Dio.
La parola, quella che aveva la magia di comporre rancori stagionati e lenire ferite antiche, scaturiva in seguito dal cuore del questuante cappuccino e veniva da molto lontano, dalle sue ore interminabili di preghiera e di adorazione eucaristica, anche al termine di giornate che lo vedevano sudato e trafelato d’estate, intirizzito dal freddo e zuppo di pioggia d’inverno.
Austero con se stesso e aggrappato all’Assoluto, fra Pietro aveva appreso l’arte di comunicare con gli uomini, intercettando i loro bisogni di pane e divinità, spargendo il suo sorriso sereno nelle spine della vita di contadini, induriti dal lavoro e a volte dai vizi, missionario delle campagne, dispensatore delle “cose di Dio”.
lI 4 ottobre 1939, mentre da un mese l’Europa veniva investita dalla maledizione della seconda guerra mondiale, fra Pietro si recava, con il suo inseparabile carretto, alla stazione ferroviaria di Partinico per far avere ai confratelli del convento di Caltanissetta una partita di vino da Messa che gli era-stato richiesto con una certa urgenza.
Quindi avrebbe fatto in tempo ad associarsi a confratelli e terziari che si erano riuniti all’Opera Santa per ricordare, con la suggestiva liturgia del “transito”, il serafico padre san Francesco. Ma una tragedia, provocata dall’impennarsi della mula che svincolatasi dal carro, per il rumore provocato dall’arrivo di un treno, fece scivolare la botte con i 427 litri di vino sul povero fra Pietro che, inutilmente questa volta, aveva cercato di reggerne il peso.
Sorella morte associò quasi subito il questuante cappuccino, che fece in tempo a ripetere un sommesso “Gesù mio, misericordia!”, alla liturgia celeste proprio nel giorno in cui la Chiesa ricorda il Poverello d’Assisi.
Il rimpianto, manco a dirlo, fu generale e alle esequie la voce popolare cominciò subito a girare di bocca in bocca: “è morto un santo!”, mentre il corpo martoriato del cappuccino venne subito definito “un angelo stanco” e i “parenti prossimi” del frate, i poveri del quartiere Spine sante piangevano sconsolati: “abbiamo perduto il padre”.
Il 25 giugno 1972, le spoglie di fra Pietro con grande solennità sono state traslate in una sepoltura nella chiesa dei cappuccini di Partinico. Il 1 luglio 1985 ha avuto inizio il processo cognizione per la sua beatificazione e canonizzazione che si è chiuso, sempre a Partinico, il 12 novembre 1987 e trasmesso alla congregazione romana delle cause dei santi che lo ha aperto e protocollato. Nel 1995 è stato nominato il relatore della causa, il conventuale padre Cristoforo Bove.
Avrà la Chiesa di Monreale la gioia di dichiarare “beato” il povero questuante cappuccino di San Pietro Clarenza nello splendore della sua Basilica Cattedrale? Non lo sappiamo, ma lo speriamo come ulteriore dono di grazia.
Intanto da fra Pietro vorremmo raccogliere questa umile lezione, che ci è assai utile come l’aria per respirare, nell’attuale sfaldarsi dei valori: le doti naturali di intelligenza, concretezza, altruismo, semplicità, discrezione, inventiva e coraggio, quando incontrano il Vangelo, come è avvenuto nel nostro frate cappuccino, da semplici “virtù contadine”, diventano leva formidabile per trasformare la società dall’interno, creando nuovi modelli di convivenza.
Giovanni Spagnolo