“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). Nella parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32), Gesù ci presenta Dio come Padre di amore e di misericordia. Questa analogia ci permette di comprendere più profondamente il mistero stesso della misericordia, quale dramma che si svolge tra l’amore del padre e la prodigalità e il peccato del figlio. Nei primi mesi di quest’anno dedicato alla Misericordia, alcune riviste cattoliche hanno pubblicato il quadro dell’autore olandese Rembrandt van Rijn: “il ritorno del figliol prodigo”, opera pressoché sconosciuta al gran pubblico, che ha suscitato molto interesse. Alcune diocesi italiane poi hanno scelto lo stesso quadro come icona del cammino spirituale per il 2016. Questo ci ha spinto a offrire anche sul nostro sito, una breve esegesi di lettura del quadro che, per la ricchezza di particolari e per la forza espressiva, meriterebbe un ben più adeguato spazio.
L’opera, del 1668, mostra quale alto grado di intensità pittorica Rembrandt avesse raggiunto nella sua arte; la carica emotiva dell’episodio avvolto da una misteriosa oscurità che sacrifica ogni particolare superfluo alla forza espressiva delle grandi figure, si manifesta in un rosseggiante bagliore di luce che racchiude anche il significato più profondo del dipinto: il calore dell’amore e della passione (il padre) e/o il rossore della gelosia e della rabbia (figlio maggiore). Il tema centrale è senza dubbio l’abbraccio misericordioso del padre al figlio minore di ritorno dalla sua fallimentare esperienza di autonomia. Da subito, a partire dalla disposizione dei personaggi in scena, scopriamo che la posizione del padre e del figlio minore richiamano l’attenzione su di un altro personaggio: il figlio maggiore, che appare all’estremità opposta dell’opera, così come lontano è il suo cuore da quell’evento.
L’artista rimanda idealmente ad un’altra parabola lucana: quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Il figlio minore inginocchiato davanti al padre e con gli occhi bassi impersona il pubblicano che riconosce il suo peccato, al contrario del figlio maggiore ritto in piedi su di un gradino (così da fare apparire il padre, ricurvo sull’altro figlio, ancora più piccolo), con le mani incrociate, a differenza delle mani del genitore che si allargano nel gesto dell’accoglienza. Lo sguardo del figlio maggiore bene incarna quello del fariseo che si vanta davanti a Dio del suo essere giusto e osservante della Legge a differenza degli altri.
In questa, come in tutte le opere degli ultimi quindici anni di vita Rembrandt, appare quella luce rossa particolarissima e sovrannaturale. L’episodio è avvolto da una misteriosa oscurità che rende incerte le forme, lascia con fatica spazio ad un estremo rosseggiante bagliore, come se il tenue lume per lo spirito riuscisse appena a varcare la barriera della materia, comunicando messaggi di bellezza e verità assolute.
I personaggi presenti sulla scena sono enigmatici, sui loro volti si può scorgere la meraviglia e il compiacimento, o la derisione e la commiserazione, ma più di tutti il volto luminoso del padre mostra gli occhi chiusi quasi a voler sottolineare che gli occhi di Dio non scrutano solo l’agire esteriore, ma il cuore, vedono oltre le apparenze, oltre i fatti, penetrano l’interiorità della persona.
Tuttavia è il gesto dell’abbraccio quello che, più di altri particolari, ha attirato l’attenzione su quest’opera. L’abbraccio accogliente dell’anziano padre sembra trattenere il figlio dopo la lunga lontananza, nel duplice segno della misericordia e dell’affettuosa dissuasione. Accoglie e benedice. L’amore di Dio libera, non costringe, non imprigiona. Poi lo sguardo cade ineluttabilmente su quelle mani difformi dell’anziano genitore che sembrano sfiorare il corpo del figlio: la destra dai tratti più gentili si direbbe una mano femminile a differenza dell’altra più virile, più consona ad un uomo. Proprio su tale particolare si sofferma l’interpretazione che vuole l’autore della tela aver ben compreso la sorprendente novità teologica della parabola del padre misericordioso: l’amore di Dio è ad un tempo materno e paterno, ha la delicatezza e la sensibilità di una madre, il vigore e la determinatezza di un padre.
Quasi a voler confermare questa interpretazione si veda la corrispondenza “mani-piedi”. Alla mano “femminile” corrisponde il piede scalzo e ferito (segno del lungo e faticoso viaggio di ritorno), segno di protezione e di cura particolare, al piede calzato corrisponde la mano maschile a rinvigorire e a indicarne potenzialità ulteriori. Se questo non bastasse, il maestro fiammingo ha aggiunto un altro particolare molto raffinato che denota una conoscenza profonda della Sacra Scrittura. Il figlio minore poggia la sua testa rasata sul seno del padre, per evidenziare che la misericordia nel linguaggio biblico è sempre stata coniugata con un sostantivo: le viscere di misericordia. L’origine dell’espressione ebraica tradotta con il termine “pietà”, compassione o misericordia, non è facilmente determinabile, tuttavia la radice “rhm” sembra orientarci verso un chiaro significato: essere mite o avere larghe vedute. Il sostantivo “rehem” designa il seno materno e il concetto di protezione, mentre il plurale “rahamim” descrive un sentimento viscerale di fraternità e ha a che fare con il legame profondo che s’instaura fisicamente tra i figli della stessa madre. Fin qui abbiamo cercato di familiarizzare con quest’opera di stupefacente profondità, invitiamo i lettori a continuare lasciando che la meditazione intrapresa possa avanzare sollecitata dall’uno o dall’altro particolare che ci ha colpito.
GIUSEPPE DAMINELLI