Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 18,1-11
In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?». Quando ero ragazzo, vivevo il Venerdì Santo come il giorno più lungo dell’anno. Ho capito il perché più tardi, leggendo in sant’Agostino che il tempo è dimensione dell’anima. Infatti, per la carica di sofferenza che lo caratterizza, il Venerdì Santo iniziava con la cattura di Gesù, nel vespero del giorno precedente, e si allargava al giorno seguente, nella lunga e dolorosa attesa della resurrezione. Maturando nella fede, il Venerdì Santo è diventato anche il giorno più ricco, perché è dalla croce del Calvario che Gesù ci fa dono di quanto ha umanamente di più caro: sua madre. Il Venerdì Santo è anche il giorno della nostra redenzione: da tempo di sofferenza si trasforma in ragione di speranza e di vita. Il corpo di Gesù, appeso alla croce, è segno di supremo amore e ci dona una duplice ricchezza: da una parte, la Grazia che salva quanti credono in Lui, come figlio di Dio; dall’altra, la sua morte è la rivolta contro ogni forma di male. Se si guarda all’immenso dolore nel mondo, la morte di Gesù può sembrare un fatto insignificante. Invece è proprio la presenza dell’uomo crocifisso che ci fa cogliere il dolore e ci aiuta a lottare per restringere sempre di più lo spazio del male nella storia. Il Dio della croce è un Dio che tace soffrendo, che se non mi libera dalla sofferenza è con me in ogni sofferenza. Elie Wiesel, nel libro La notte, raccontando la terribile scena di un ragazzo agonizzante appeso a una forca ad Auschwitz, scrive: «Udii dietro di me il solito uomo domandare: dov’è il buon Dio? Dov’è? E sentivo in me una voce che rispondeva: Eccolo, è appeso lì, a quella forca». È il caso di chiederci: il silenzio di Dio, più che segno della sua indifferenza, non è forse il “silenzio” nel quale l’uomo chiude Dio, per dare un senso alla propria esistenza prescindendo da Lui? Parola-chiave: Passione e Morte «Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore.» (Dei Verbum, 24)