«Venite, benedetti… ero nudo e mi avete vestito»
Quando si parla di nudità, si entra in un contesto estremamente delicato per ogni uomo, perché fa parte della propria intimità un settore della vita che ognuno è chiamato a conservare con prudenza e rispetto verso se stesso. E questo lo si fa “indossando l’abito” e facendo così in modo che il nostro presentarci in società non susciti imbarazzo né personale né altrui. La nudità, al contrario, espone l’uomo immediatamente al prorpio senso del limite creaturale: l’uomo nudo è più esposto al freddo, alle malattie, alle contaminazioni.
Dal punto di vista religioso, è più esattamente della storia della salvezza, l’essere nudi indica il senzo di inadeguatezza e di vergogna che provarono Adamo ed Eva dopo la trasgressione del comandamento di Dio, quando il Signore stesso dovette fare per l’uomo tuniche di pelle e vestirli (Cfr Gn 3,21). Questa cura che Dio ebbe per i progenitori, segno della sua misericordia nonostante il loro peccato, indica che la dignità di ogni uomo va oltre quanto può aver compiuto durante la vita in bene o in male, va oltre i confini del conoscersi o meno, dell’appartenere a una nazionalità o a un’altra.
Ad ogni uomo va riconosciuto il dirito di poter “indossare un abito”, cioè di potersi presentare agli altri senza provare vergogna. Vestire gli ignudi oggi, più che un atto meramente pratico, potrebbe divenire un impegno nel preservare il valore stesso dell’essere umano, rispettandolo e amandolo.
Tiberio Cantaboni