KYRIE, ELEISON

La più evangelica e originale delle preghiere cristiane ha a che fare con la misericordia: Kyrie, eleison. Parola di ciechi, di lebbrosi, di morenti: Signore pietà. Per coglierne a fondo la potenza dobbiamo però farla evadere dalla sua collocazione asfittica dentro l’atto penitenziale. Kyrios, signore, è termine greco il cui il significato ci riporta alle sorgenti della vita e della fede. La radice deriva dal verbo kyo, che indica della donna l’atto piu specifico ed esclusivo: essere incinta, gravida di vita. Dio può fregiarsi del titolo di Kyrios perché  è la sorgente della vita e presiede a ogni nascita, cura e riporta a integrità la vita dei figli. Eleison è l’imperativo della pietà. Quando invochiamo: Signore pietà, dobbiamo liberare in volo tutto lo splendido immaginario della vita. La misericordia di Dio è più grande, profonda e creativa del semplice perdono di una colpa. Il cieco prega: abbi pietà, ma non dei miei peccati, quanto dei miei occhi spenti. Pietà di noi, gridano i lebbrosi: ma non perché siamo più peccatori degli altri, bensì più dolenti e rifiutati; pietà perché non c’è più nessuna carezza per noi e questo non è più vivere. Kyrie, Signore, sentiti madre di questi figli naufraghi, ridona primavera a questa pelle sfatta, fai alzare la mia figlioletta morta, falla ridere e danzare di nuovo; dona la gioia della luce, della madre luce ai miei occhi morti.

Voglio confessarvi tutto il mio disagio per tanto linguaggio liturgico lamentoso, sempre volto a chiedere pietà e perdono, centrato sul peccato da assolvere o da scontare: per mia colpa, mia grandissima colpa… Ma soprattutto confesso il disagio per l’immagine di Dio che questa inflazione di peccato e di richieste di perdono propone: puntiglioso, pericoloso ragionieristicamente attento alle piccole cose. Anziché illuminare il Dio innamorato seminatore di bellezza, primavera del cosmo, accensione del cuore. Gesù ci ha detto di chiamare Dio “Abba”, papà; un Dio di casa, vicino di tavola. Lo chiamo papà, e poi continuamente gli chiedo pietà. Che amore, che fiducia è quella che ha sempre bisogno di chiedere pietà al proprio padre? Come facciamo a tenere insieme il “Signore pietà” e il “Padre nostro”? Possiamo farlo a una condizione: se sentiamo il perdono di Dio com’è, cioè il dilagare di Dio sopra il mio cuore; del suo sole sopra le mie ombre; lo sgorgare di aperture contro i miei limiti. Brecce, falle di luce, fessure di cielo, correnti dentro l’immobile stagno dove la vita si è arenata. Il Kyrios mostra la sua pietà creando a ogni incontro “situazioni di apertura”, sospingendo a più amore, a più libertà, a più coscienza, forza ascensionale verso più luminosa vita. Dio perdona come un creatore, non come uno smemorato, facendo come se niente fosse successo. Perdona dilatando il cuore, rendendolo spazioso, accendendo ogni stoppino smorto. Perdona risuscitando amore. Perdona togliendo pietre che chiudono l’imboccatura dell’anima, come chiudevano la tomba di Cristo, creando aperture continue. Dio perdona aprendo le porte della vita, fede di Pasqua!

Quando Gesù si presenta a Tommaso e gli dice: Toccami! Tendi la mano, nelle sue parole non risuona nulla di lamentoso, nessuna richiesta di penitenza o pentimento. Il Signore viene con “pietà”, vale a dire mostrandosi come colui che fa ripartire la vita, grembo di madre e di padre. Il dono di Dio non è pentimento, è Dio che porta se stesso. Questo è il perdono. Tocca, tendi la mano, metti. Ma il vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato il foro dei chiodi. Che bisogno c’era? Si fida, che inganno può nascondersi in chi è morto inchiodato per te? Tommaso non le ha toccate quelle piaghe, lui le ha baciate. Ha posato labbra ardenti su quelle ferite diventate le feritoie della più grande bellezza del mondo.

ERMES RONCHI

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