L’esterno della chiesa non ha niente di promettente e si apre la porta senza aspettazione; ma appena entrati si prova la più grande delle meraviglie. Il visitatore si trova entro una galleria larga quanto la chiesa e che si apre di contro alla navata. Vi si vedono i soliti recipienti per l’acqua santa ed alcuni confessionali. La navata è come un cortile aperto ed allungato: a destra è chiusa dalla ruvida roccia del monte, a sinistra da una continuazione della galleria. Il pavimento di lastre di marmo è leggermente inclinato per lasciar scorrere l’acqua piovana. Nel mezzo di questa navata c’è una fontana.
La grotta della Santa è stata trasformata in coro, senza che si sia cercato di togliere nulla della sua naturale rozzezza. Vi si arriva salendo alcuni gradini, subito dopo i quali viene il pulpito con il messale; ai due lati si distende un giro di scanni. Tutto viene illuminato dalla luce del sole entrante dall’atrio e dalla navata. L’altare maggiore è situato in fondo alla grotta, in basso.
Come ho già detto, nella grotta non si è mutato nulla. Ma poiché le rocce filtrano sempre acqua, per togliere questo inconveniente, si sono messe alle sporgenze di esse delle grondaie di piombo variamente collegate tra loro. Queste grondaie hanno tutte un brutto colore verde e quindi a vista si crede che nella grotta siano cresciuti dei grandi cactus. L’acqua viene tutta raccolta e versata in un grande recipiente dove accorrono i fedeli a farne provvista, perché credono che essa guarisca ogni specie di mali. Avevo già osservato tutto con molta attenzione, quando mi si avvicinò un prete per domandarmi se ero genovese e se volevo far dire delle messe. Risposi che ero venuto a Palermo, in compagnia d’un genovese che aveva preferito di venire domani che era giorno festivo, e poiché uno dei due doveva rimanere sempre in casa, oggi ero venuto io per visitare le bellezze della chiesa. Il prete replicò che avessi fatto quello che più mi piaceva, che avessi pure osservato tutto e che avessi fatto le mie devozioni in tutta libertà, e dopo avermi indicato un altare laterale, come specialmente efficace, mi lasciò. Mi voltai e, a traverso il fogliame lavorato di una grossa lampada di ottone, vidi rilucere qualche cosa. Mi inginocchiai davanti ad un cancello finemente lavorato e cercai di spingere lo sguardo nell’interno, ed al chiarore tranquillo di alcune lampade vidi una bella dama. Giaceva come assorta in una specie di rapimento, gli occhi semichiusi e la testa negligentemente posata sulla mano destra, carica di anelli. Io non potevo osservare bene la statua, ma vista a quel modo aveva uno speciale incanto. Il suo abito era formato da una sottilissima lamina dorata che imitava molto bene una stoffa riccamente lavorata in oro. La testa e le mani sono di marmo bianco e, se non hanno uno stile elevato, pure sono di grande effetto e di molta naturalezza, tanto che si aspetta quasi che la donna debba sospirare e muoversi. Le sta vicino un piccolo angelo che sembra voglia farle vento con un giglio.
In questo frattempo i monaci erano entrati nella grotta, avevano preso posto nei loro scanni ed avevano cominciato a cantare il vespero. Mi sedetti su di un banco dirimpetto all’altare e rimasi ad ascoltare per un bel pezzo; poi tornai di nuovo all’altare e m’inginocchiai con la speranza di poter osservare più distintamente la bella immagine della Santa. E mi abbandonai interamente all’incanto di quel luogo e di quella immagine. Il canto dei monaci risuonava nella grotta, l’acqua gocciolava monotona nei recipienti, mentre le rocce sporgenti del vestibolo e la strana forma della navata restringevano sempre la scena. C’era una quiete straordinaria in questa solitudine quasi morta, una grande purezza in una grotta di quella sciliana, aveva qui ancora una bella semplicità naturale e l’illusione che la Santa potesse muoversi impressionava anche un uomo maturo e calmo come me. In una parola, abbandonai quel luogo con fatica e rientrai a Palermo solo a notte avanzata.