Quando mirammo prima Monte Pellegrino sorgente in sue nobili linee dal mare, alto nella luce del sole mattutino nostra prima visione del lido di Sicilia, stabilimmo di farne l’ascensione sino alla sommità, per indi studiare la topografia di Palermo, la Conca d’Oro e i monti circostanti. Epperò la dimane del nostro arrivo, essendo tempo buono, e l’aria fresca e corroborante, un vero mattino da gita in montagna, noi uscimmo dalla porta settentrionale della città, Porta San Giorgio, e, prendendo la “Via del Monte Pellegrino”, venimmo alla “falda di montagna”, che val dire al suo lembo. Seguitando il nostro cammino, traversammo una pianura sulla quale stava facendo le sue evoluzioni uno squadrone di cavalleria italiana. Sostammo per pochi minuti a osservare i movimenti della truppa, e ci ricorda di esserci provati a immaginare la strage che un piccolo corpo d’uomini armati di carabine e d’altri strumenti moderni di guerra. avrebbe potuto fare dei soldati di Amilcare Barca, che avevano piantate le loro tende in quello stesso antico piano, appiè del monte Ercta (il nome antico di Monte Pellegrino) anni 2141 addietro. Appiè del Monte Pellegrino trovammo un “asinaio” che ci aspettava; con due ben tenute e ben pasciute bestie della paziente famiglia, che come dice il proverbio in Sicilia “porta il vino e beve l’acqua”. Erano animali gagliardi e faticanti, e, se non facevano quel viaggio di volontà propria, tuttavia andavano del loro passo perseverante, memori senza dubbio di quell’altro proverbio “Asino duro, baston duro”. Non perdemmo tempo nel montare i nostri corridori, che ci permisero graziosamente di farlo senza rimostranza alcuna. In verità essi ci si sottomisero con tanta mansuetudine e stupidità che noi concepimmo fortissimo sospetto di non esser tratti ingannevolmente nei lacci di una sicurezza illusoria dalla quale dovessimo destarci poi; presto o tardi, quando a tempo debito saltasse in testa ai nostri asini di camuffarsi in un brutto momento di pelle di leone. Il nostro “asino” informandoci che gli asini eran «giovani» e «mulu forti», allentò loro la cavezza, e distribuì a ciascun d’essi una bussa preliminare col suo bastone, emettendo un acuto grido gutturale «Ah! ee!» e «Avanti!» e la nostra cavalcata incominciò l’ascesa della strada di montagna, che è un largo viadotto, solidamente costruito con archi e piloni, un miracolo d’arditezza per ingegneri del secolo decimosettimo, i cui zig-zag su per la montagna attraversano avanti e indietro un burrone precipitoso, nel quale, nella stagione invernale, si riversano giù torrenti d’acqua. Ben quindici o venti volte la strada salta da una parte all’altra sì da fare, in vero, mervigliare come gl’ingegneri trovassero luogo su quei precipizi, e dove si stessero mai i costruttri mentre gettavano le fondamenta. Subito dopo, trasalendo di stupore, aggiungemmo una greggia di un migliaio di capre; potevano anche essere di più, di meno non già. E certo noi non avevamo mai visto prima un numero così grande di quegli animali, di tutte le razze, di tutti i colori, di tutte le età e condizioni. Dietro quelle seguiva, mandando sempre quello strano grido «Ah! Ee!» un buon numero di caprai, bruni e riarsi dal sole, cenciosi e arruffati, taluni vestiti di larghi calzoni e abiti di pelle di pecora, altri con le gambe nude, salvo i calzoni corti sino al ginocchio, e portando tutti quanti la giacca di pelle di capra. Strani esseri, dall’aspetto innaturale, simili a satiri! Potevamo quasi fantasticare che Sileno fosse uno di quelli, vecchio dalla barba squallida e con l’epa d’apparenza punto siciliana. Si poteva immaginare che tutti quanti di quella strana compagnia, se vi fosse stato lo stesso Pan a suonare la zampogna, si sarebbero mossi a danzare, roteare via via per le rupi in mezzo a viti e felci, secondo lo stile di loro antica stirpe, prima che i santi cristiani cacciassero gli dei pagani da Palermo e mettessero in fuga la deità dei monti e delle selve. E come non immaginare questo o qualche cosa di simile? Eravamo in mezzo a uno strano teatro di rocce e di rupi torreggianti, che pendevano paurosamente sopra abissi tenebrosi è spalancate voragini, soli, in un mondo selvaggio, e intorno a noi vi erano tutti gli accessori necessari a disporre romanticamente lo spirito, volgendo coraggio e mobilità di cuore in debolezza e superstizione. Come non fantasticare del ritorno di Pan? In verità sogni diurni anche più strani sarebbe difficile allontanare da immaginazioni suscettibili dell’influenza del tempo e del luogo; poiché, lungo il fianco della strada, di Decembre, una settimana o due prima del Natale, noi scorgevamo pur margherite e fìorrancio e soave alisso, timo selvatico, menta fiorita e maceroni, e astri punteggiati di rosa, trifogli germoglianti, acetosella, e, ultime, ma non in minor copia, violette, che schive ci spiavano dall’ombra dolci occhi che guardavano e splendevano nella molle luce del sole: il loro aspetto allietava la vista” affaticata dalla selvatichezza delle tetre rupi e dei picchi inospiti della imminente montagna, e tutti quei fiori fiorivano dolcemente nella vigilia di Natale. Decembre nella gaia veste screziata del Maggio, il mondo tornato giovine ancora! Come non fantasticare di satiri e delle zampogne di Pan? Passati gli ultimi archi che sostengono, la strada di qua e di là, traverso e sopra l’abisso, seguimmo una via maestra, lastricata, dal nord alla fronte occidentale della montagna, e ci fermammo a piè di una vasta gradinata intagliata nella pietra viva. Lasciammo i nostri asini senza cavezza, punto dubitando che non gli avessimo a trovare di nuovo e saliti cinquanta gradini o più, ci fermammo dinanzi alla grande porta di un antico romitorio. Avevamo lasciata alle spalle la città splendida e rumorosa appena da un’ora e ci sembrava già di essere lontani dalla vita e dà suoi negozi, come se avessimo attraversato un deserto, o avessimo scalato qualche immenso San Bernardo; e ci stavamo dinanzi alle porte d’un’antica confraternita «che dimentica il mondo, dal mondo dimenticata». Subito venne di entro le tetre mura coristi stavano cantando un antico inno gregoriano, grato all’orecchio tenero al cuore, e tale da rimanere dolcemente nella memoria. Dentro erano pace e quiete; solo il mondo esterno sembrava triste e desolato.
Subito, in risposta al nostro picchiare, una porcicella fu aperta da un vecchio monaco, al cui invito entrammo in un vestibolo, che aveva da una parte una sacrestia, dall’altra un santuario scavato nella roccia, dinanzi al quale tremolavano tre o quattro candele quasi già consumate. La volta era sostenuta da due congiunti monoliti di grosso marmo sormontati da capitelli intagliati di pomposi disegni. Strano era il trovarsi nell’ombra di quel vestibolo, guardando oltre i pilastri in cerca della luce del sole piovente entro il cortile, che sembrava una navata la quale avesse per sua volta il cielo e per pareti, quella a destra, rupi non tagliate, quella a sinistra, una continuazione della struttura del vestibolo. Ad un lato di questo spiazzo aperto e quadrato, vi era un fonte battesimale, che era una fontana naturale; più oltre, attraverso il cortile, si apriva una larga caverna nel fianco della montagna, nel cui interno molte candele scintillavano sopra un elevato altare al quale un sacerdote stava dicendo messa. Il silenzio era rotto solo dal mormorio della preghiera, dall’onda musicale dell’organo e dal canto dei coristi. Noi potevamo indovinare, più che non vedessimo, le figure dei monaci nei loro stalli, a ciascun lato della grotta. Attraversando quella che pareva una navata senza volta, entrammo nel santuario; una grotta misteriosa con stalattiti che pendevano dalla volta, sotto cui era sospeso uno strano e complicato sistema di doccioni per raccogliere l’acqua, che altrimenti gocciolerebbe sui religiosi e sui devoti. Il nostro cicerone spirituale ci indicò un sedile, dove ci sedemmo, dietro i monaci vestiti e incappucciati, a fianco del Vangelo. La parte anteriore della caverna era illuminata dal sole; i recessi interni erano avvolti nell’oscurità, salvo dove la luce delle candele, poste sull’altare, illuminava fiocamente le pareti e la volta del misterioso santuario. Quando la messa fu finita, e spenti gli echi dell’ultimo “amen”, poiché quei santi padri ad uno ad uno chetamente disparvero dalla grotta, ritornando alle celle del loro romitorio, la nostra guida accese un cero, e ci fece guardare entro una cassa di vetro che rinchiudeva un reliquiario, sotto a un altare che sorgeva a sinistra della cancellata; inginocchiandoci dove Goethe s’era inginocchiato, a pregare, come lui, fra i misteri della tomba, noi volevamo pur credete di mirare ciò che egli, più di un secolo addietro, così descriveva: «Alla ferma luce d’una piccola lampada io mirai la figura di una donna bella; essa era lì come in estasi; i suoi occhi erano semichiusi, la sua testa riposava mollemente sulla sua destra che aveva molti anelli; non potei con certezza distinguere i suoi lineamenti, tuttavia essi mi sembrarono avere un incanto meraviglioso; il suo abbigliamento era di canutiglia dorata, che gli dava l’apparenza di una ricca e delicata veste di oro. La testa e le mani erano di candido marmo, scolpito se non nel più alto stile, nullameno lavorato con tanta naturalezza e bellezza che si poteva credere che quella figura respirasse e si movesse; un piccolo angelo stava vicino a lei come a farle vento con un bel candido giglio”. Tutto questo noi ci sforzavamo di vedere come Goethe, abbandonandoci alla passeggera illusione del luogo e alle sue ispirazioni; ma la nostra fantasia aleggiava debilmente dove la sua s’era librata con sì intrepido volo. Volgemmo gli occhi alla luce e alle dolci realtà della vita. Salutammo con piacere la vista di alcune felci di delicato capelvenere, che vegetavano alla luce del sole intorno al comignolo della fontana nell’aperto cortile, la navata, della chiesa. Un’antica e vera fontana, che serve da fonte batcesimale, da pila dell’acqua santa, e da fontana d’acqua da bere, dove si battezzano i bimbi, dove monaci e pellegrini devotamente si fanno il segno della croce e bevono per guarire da loro brutti mali.