Ieri salimmo sul monte Pellegrino per rendere omaggio a S. Rosalia e per ringraziarla della varietà degli svaghi procuratici. Si tratta di una delle più faticose escursioni fatte in vita mia. La montagna è altissima ed eccezionalmente erta la strada che vi conduce è chiamata con nome molto appropriato: la Scala. Prima della scoperta di S. Rosalia era ritenuta inaccessibile, ma ora con grandi spese venne costruita una strada che taglia i precipizi. Trovammo la santa giacente nella sua grotta, nell’attitudine in cui sarebbe stata scoperta: col capo dolcemente reclinato sulla mano e con davanti un crocifisso. C’è pure una statua di marmo bianchissimo e di squisita fattura; è collocata nell’interno della caverna, nello stesso punto ove spirò S. Rosalia, e rappresenta una piacente fanciulla di circa 15 anni in devoto atteggiamento. L’artista trovò modo di infondere in questa bellissima statua un’espressione di estrema commozione. Mai in vita mia vidi una scultura che m’impressionasse di più e non mi sorprende che si sia cattivata i cuori del popolo. È rivestito di un abito in oro battuto ed adorna di preziosi gioielli. La caverna è estremamente umida e la povera e piccola santa deve avere avuto un ricovero ben freddo e ben squallido. Attorno alla caverna è costruita una chiesa; dei custodi stanno a guardia delle preziose reliquie e ricevono le offerte dei pellegrini. In un antro del monte Quisquina, a grande distanza da questa montagna, venne trovata un’iscrizione scolpita dalla mano di S. Rosalia stessa. Si dice che disturbata nel suo ritiro essa si rifugiasse sul monte Pellegrino, più isolato e meno accessibile. Ecco la copia di tale iscrizione nel latino della piccola e povera santa: “EGO ROSALIA SINIBALDI QUIS QUINE ET ROSARUM DOMINI FILIA AMORE DEI MEI JESU CHRISTI IN HOC ANTRO HABITARI DECREVI”. Dopo la fuga di S. Rosalia dall’antro ove fu trovata l’iscrizione, non s’ebbe sentore di lei, sinchè, circa cinquecento anni dopo, le sue ossa furono trovate in questo posto. La vista della vetta del monte Pellegrino è bella ed estesa. Nelle giornate serene si scorgono varie isole dell’arcipelago delle Lipari e gran parte del monte Etna che si trova all’estremo opposto della Sicilia. La Bagaria ed il Colle, coperti di numerose ville e di giardini, appaiono bellissimi da lassù. La città di Palermo di cui si gode il panorama, dista meno di due miglia dai piedi della montagna. In occasione dell’illuminazione della città la gente sale sull’erta per ammirare il bellissimo effetto, ma noi purtroppo abbiamo tralascia o di farlo. Circa a metà della salita si scorgono dei resti di un celebre castello e gli autori siciliani fanno risalire le sue origini alla più remota antichità. Il Massa dice che si suppone sia stato costruito durante il regno di Saturno, immediatamente dopo il diluvio, e già al tempo delle prime guerre puniche era venerato per la sua vetustà. Venne poi trasformato in fortezza ed è menzionato dagli storici greci. Diodoro nel suo 23° libro dice che Amilcare lo tenne per tre anni malgrado le forze dei Romani, i quali con un’armata di quaranta mila uomini invano tentarono di sgomberarlo.
Credo che il monte Pellegrino sia la migliore posizione per ammirare Palermo. La magnifica città si adagia all’estremità di un anfiteatro naturale, formato da alte montagne rocciose, ed il paesaggio che si estende fra la città e queste montagne è uno dei più ricchi e dei più belli del mondo. Il complesso appare quale un meraviglioso giardino ricco di alberi fruttiferi di ogni specie, bagnati da chiare fonti e da ruscelletti, che con le loro curve sinuose danno un variato aspetto alla pianura. Per la posizione singolare e la ricchezza del suolo, Palermo è stata designata con epiteti adulatori, in ispecie dai poeti che l’hanno denominata la Conca d’oro. Venne pure chiamata Aurea Valle, Hortus Siciliæ, ecc.; e per abbracciare tutti questi nomi venne aggiunto il termine di Felix col quale si trova distinta nelle mappe. Molti etimologi affermano che il suo nome originario di Panormus derivi dalla ricchezza di questa vallata, nome che in greco antico significherebbe «tutto un giardino» mentre altri dicono sia inutile cercare delle interpretazioni forzate, ed asseriscono, con maggiore apparenza di plausibilità, che fosse chiamata così dall’ampiezza e convenienza dei suoi porti e si menziona che in antico uno di questi si estendesse sino al centro della città. Questa è pure la versione di Diodoro: egli dice che si chiamava Panormus perché il suo porto penetrava appunto nelle parti interne della città. “Panormus”, in greco, significa tutto un porto, e Procopio nella sua storia delle guerre dei Goti assicura che al tempo di Belisario il porto era abbastanza profondo da permettere a questo generale di spingere le navi sino alle mura della città. Oggi il nome non corrisponde più così bene come allora. Questi porti furono quasi totalmente distrutti e interrati, io credo, in seguito ai violenti torrenti che calano dalle montagne circostanti che altre volte distrussero gran parte della città. Il Fazello parla di un’inondazione di cui fu testimonio oculare, prodotta dalle acque discese dai monti con tanta veemenza da far credere che la città sarebbe stata spazzata via. Vennero abbattute le mura vicino al palazzo reale e divelta ogni cosa che si opponeva al passaggio delle acque, furono distrutti conventi, chiese e duemila case, affogarono tre mila persone. Le macerie trasportate in mare da un tale torrente sarebbero sufficienti per interrare un piccolo porto, sicché non ci sorprende che il porto capace, tanto celebrato, non esista più. Si ritiene generalmente che, dopo Camaseno, Palermo sia la più antica città dell’isola.