Sì, la città è in festa. Molti balconi sono illuminati. Negli angoli delle strade, le immagini dei santi, circondate da drappeggi ornati con carta dorata, con mazzi di fiori posati o attaccati alle mezzelune di ferro, di lampadine o di candele accese, brillano nella notte calma. I passanti, più numerosi del solito, seguono quasi tutta la stessa direzione: scendono verso il mare. Fra loro, gruppi di contadini delle campagne vicine, con costumi pittoreschi, gli uomini portano il berretto cascante, le donne vestono con gonne vistose e grembiuli e fiorami. Evidentemente, c’è questa sera un appuntamento popolare che agita tutta la provincia. È il 03 settembre. Domani la Chiesa celebra la festa di santa Rosalia, patrona di Palermo, e, questa notte, fedele alle tradizioni, il popolo si reca in folla verso l’oratorio della santa eremita, verso la grotta che domina il mare, in cima al monte Pellegrino. La festa del 15 Luglio, data dell’invenzione delle reliquie della santa, la processione, le illuminazioni, i fuochi artificiali per i quali il consiglio comunale vota, ogni anno, delle somme considerevoli, sono celebri in tutta Europa. Il grande pellegrinaggio del 03 settembre lo è di meno e la sua fama non oltrepassa di molto i confini della Sicilia. Non ci sono colpi di cannone, nè uno spiegamento della forza pubblica, ma è una manifestazione più originale forse e altrettanto viva della devozione siciliana; ecco almeno quanto ci avevano annunciato e che stavamo per vedere, al nostro rientro dallo Zucco. Subito, a piazza Lolli, prendo una carrozza e dico al cocchiere di portarmi «al piè di monte». In pochi minuti, siamo nei quartieri vicini al mare e la folla aumenta nelle vie più strette; folla allegra ma non chiassosa. Si va a gruppi verso monte Pellegrino: padre, madre, figli, tutta la nidiata. Dialoghi, in cui dominano le vocali sonore, si scambiano tra la strada e le finestre gremite. Piccoli venditori ambulanti, che trasportano sul ventre le proprie mercanzie, decorate con carta trasparente, corrono, girano, si incrociano, scompaiono come stelle filanti. Molti vanno a piedi, ma ce ne sono ancora di più nelle vetture. Dieci, dodici, quindici persone stanno strette, come chicchi di uva nera, sui minuscoli carretti del paese. La parte anteriore, la parte posteriore, le stanghe, i predellini, i laterali, tutto è sovraccarico. Il cavallo con i pennacchi trotterella comunque allegramente. Nella notte, davanti a noi, la massa bluastra della montagna si staglia alta sull’orizzonte. È lontano, oppure vicino? Non lo so. Sembrerebbe una nuvola temporalesca, dalle forme rotonde, in mezzo alla quale si contorce una spirale luminosa, formata da un’infinità di puntini dorati. Sono i ceri, le lanterne, le torce dei pellegrini che salgono i tornanti del pendio, verso la grotta dove la dolce vergine, figlia del duca Sinibaldi, amante della solitudine e della contemplazione, visse e morì ignorata, penitente e raggiante. La leggenda è carina e ne riparlerò senz’altro. In questo momento, ventimila persone circa ci precedono o ci seguono. Nella strada del sobborgo in cui entriamo, le vetture, pressare le une contro le altre, avanzano passo dopo passo. Lo spettacolo prende un colore intenso. Ai due lati della via sono accesi dei fornelli che sbarrano con bagliori rossi l’onda umana che avanza. Si vendono fritture di ogni genere, e piccoli ceci arrostiti, la simenza una specialità siciliana. Altri venditori offrono ventagli di santa Rosalia, montati su un pezzo di canna e decorati con frange multicolori; altri ancora vendono torce, carte trasparenti, limoni, fichidindia. Vedo due o tre case aperte, vividamente illuminate, in cui si balla. Le fiaccole si accendono a centinaia, in mezzo ai gruppi. Si distinguono, nei raggi danzanti della luce, delle teste dai capelli crespi, fisionomie rurali di stupendo rilievo, serie, vivaci, in cui si sente la passione a fior di pelle, uomini armati di fucili, in piedi sui carretti, coppie di giovani contadini, venuti da lontano, che camminano affiancati, seri nei loro abiti nuziali. Forse la novella sposa ha seguito l’antica tradizione e facto scrivere nel contratto di matrimonio che suo marito, almeno il primo anno, l’avrebbe accompagnata al pellegrinaggio di santa Rosalia. Porta tutta la piccola ricchezza della propria vita: la sua aria giovanile e felice, e il suo grembiule di seta, ancora segnato dalle pieghe rigide delle cose nuove. Alcuni canti si innalzano qua e là, mormorati dapprima da poche voci, poi ripresi in coro, su un tono strascicato, in dialetto siciliano. Presto la carrozza si ferma. Siamo ai piedi del monte, in mezzo ad un vasto terreno sassoso, piantato di ulivi. Attraversiamo la folla brulicante che canta. Oh! che accampamento singolare! Sotto gli alberi, uomini, donne e bambini dormono distesi sulla nuda terra. Il cavallo o la mula da una porta, il carretto dall’altra, li proteggono, separando le varie famiglie. Alcuni pellegrini hanno attaccato ai rami delle coperte, come un tetto bruno. Altri, seduti in cerchio, attendono l’ora di partire oppure vegliano sui dormienti. Tutti questi gruppi silenziosi, avvolti d’ombra azzurra, danno l’idea di una tribù di nomadi, fermatasi un momento nella propria corsa per riposarsi e per percorrere l’indomani una tappa difficile, mentre, proprio in mezzo alla pianura, tracciando una linea luminosa, una seconda tribù, nella confusione pittoresca e nel rumore di una marcia notturna, tenta di scalare la montagna. Questi, che proseguono la strada, andranno a dormire a due ore di cammino da qui, sull’altopiano brullo del Pellegrino, ascolteranno una messa all’alba e ridiscenderanno con il nuovo giorno. Salgono a piedi. Le loro torce in movimento disegnano, fino alla cima, i tornanti del monte. Ci sono piccole luci, molto in alto , molto lontano, che raggiungono le stelle, come se un gran colpo di vento, soffiando sul fuoco di un pastorello, portasse in spirale questi fasci di scintille.