DON CARLO GNOCCHI

Don Carlo Gnocchi, la sua vita in 13 date

25 ottobre 1902 Carlo Gnocchi nasce a San Colombano al Lambro (Milano)
06 giugno 1925 Viene ordinato sacerdote
settembre 1936 È direttore spirituale all’Istituto Gonzaga di Milano
marzo 1941 Parte per il fronte greco – albanese, cappellano militare nella Julia
luglio 1942 Parte per la campagna di Russia, cappellano militare nella Tridentina
17 gennaio 1943 Inizia la tragica ritirata di Russia. Rischia di morire congelato
08 dicembre 1945 Accoglie il primo mutilatino nella casa di Arosio (Como)
12 ottobre 1948 Costituisce a Milano la Federazione Pro Infanzia Mutilata
03 marzo 1951 Nasce la Fondazione Pro Juventute
11 settembre 1955 Posa della prima pietra del Centro pilota per poliomielitici
28 febbraio 1956 Muore a Milano alla clinica Columbus
1998 Nasce la Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus: si occupa anche di anziani
25 ottobre 2009 Don Gnocchi è proclamato beato in piazza Duomo a Milano

Un mesto corteo lungo diversi chilometri accompagnò la salma di don Carlo Gnocchi fino al Duomo di Milano, la mattina dello marzo 1956. Una folla di oltre centomila persone, commosse, senza parole, in ginocchio, paralizzò la città: una metropoli ferma, addolorata, con le saracinesche dei negozi abbassate, le chiese listate a lutto, le mani giunte. «Inghiottita dal silenzio», scrivono i giornali dell’epoca. Il passaggio della bara sorretto da quattro alpini, coperta di rose rosse e garofani bianchi, con la scritta “i tuoi bambini”, è annunciato da un rullo di tamburi. Poche ore prima, la sera del 28 febbraio 1956, aveva raggiunto la casa del Padre, a soli 53 anni, in una stanza della clinica milanese Columbus, dove era stato ricoverato a inizio gennaio per una grave forma di tumore. La scomparsa di don Carlo suscitò enorme costernazione in tutta Italia, e non solo. «Grazie di tutto» le sue ultime parole, dopo aver, baciato il piccolo crocifisso che mamma Clementina gli aveva regalato per la Prima Messa e da cui non si era mai separato. E quel «grazie» era rivolto a Cristo, che nella sua vita terrena aveva sempre cercato «con vida, insistente speranza». Ma chi era don Gnocchi? Qual è la sua eredità, il suo insegnamento a 60 anni dalla morte?

Confusione tra bene e il male   
Nelle cronache del tempo è chiamato padre dei mutilatini, apostolo del dolore innocente, angelo dei bimbi, imprenditore della carità. Definizioni corrette, guadagnate sul campo con un azione di solidarietà e di misericordia tenace e interrotta, suggellata a fine vita del gesto clamoroso, aggiunge fuorilegge ma profetico, del trapianto degli organi: la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, conciliando così coscienza e fede. Ma don Gnocchi fu molto più che presto. Al di la dell’evidenza di un cuore grande e generoso e di una attenzione estrema ai bisogni fisici e spirituali di tutti, a cominciare dai poveri e dagli ultimi, non si può ricordare che ebbe una fede incrollabile e concreta, innescata nella secolare tradizione ambrosiana. Visse la sua parabola umana e cristiana interamente prima del Concilio, ma questa circostanza per lui non fu di meno, anzi. Semmai, lungi dalle “aperture del mondo” che diventeranno quasi un’ossessione negli anni a venire, colse invece i pericoli istinti nel prelevare di una logica mondana all’interno della Chiesa. Nello scritto Educazione del cuore, del 1937, afferma: «Si può e si deve essere moderni, ma no mondani; perché moderno è quello che risponde alle esigenze vere e profonde del tempo, mondano è quello che è di moda, quindi effimero e capriccioso». Oggi diremmo: mondano è mettere al primo posto solo il benessere materiale e la dittatura dei desideri, mascherati da buoni sentimenti. Di solida dottrina, era ben consapevole di vivere in un’epoca difficile, di transizione, che mostrava i primi, inquietanti segni del venir meno di una religiosità ormai abbandonata dai più. Ancora da Educazione del cuore: «La triste particolarità del nostro tempo è il tentativo di confusione tra il bene e il male, il pericolo di anestesia delle coscienze e di legalizzazione del male. E questo è molto più grave. Un errore in sede di pensiero è assai più pericoloso di ogni errore pratico». Che attualità in questo giudizio così chiaro, espresso quasi 80 anni fa!

Don Bardareschi ricorda
«Era realista, guardava in faccia la realtà per quello che è», ci dice monsignor Giovanni Bardareschi, il sacerdote che fu vicino fino all’ultimo a don Carlo «El gh’aveva i pe’ per terra», precisa in dialetto meneghino. Oggi ultranovantenne, così lo ricorda: «Noi eravamo amici. Io ho conosciuto don Carlo il 17 marzo 1943 alla stazione di Udine, quando lui tornava dalla Russia. Mi sono presentato come chierico studente teologo milanese, e da allora siamo diventati amici. Ci siamo rivisti a Milano. Con  lui ho vissuto la Resistenza». Un fraterno rapporto di amicizia andato avanti per anni fino a quando, a fine dicembre del 1955, don Gnocchi chiede all’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI: «Faccia in modo che quel prete mio amico sia esautorato da ogni altro incarico e possa stare con me fino alla mia morte» E così avvenne. Con dialoghi quotidiani profondi, belli, tutti rigorosamente in milanese. «Aveva una visione totale, vera della vita, aveva principi saldi e sicuri, una concezione della fede e della libertà alta», aggiunge don Bardareschi. «Diceva sempre: “È nella famiglia che nasce nella fede”! E si distingueva con nettezza il capire dal credere: “Capì l’è un cunt, credere l’è n‘antra roba”. Per lui un uomo diventa uomo se crede, non se capisce. Dove per “capire” intendeva la capacità di spiegare la realtà razionale, con la ragione intesa come misura, mentre “credere” è affidarsi ad un altro». In realtà, «chi afferma, di non credere non sa in che cosa crede ma crede sempre in qualcosa, magari seguendo “cattivi maestri” come il denaro, potere, i desideri oppure credendo solo in se stesso». Che cosa direbbe oggi don Gnocchi di fronte alla drammatica lontananza da Dio della nostra società? «Direbbe che c’è poca fede perché la gente crede troppo in se stessa, e quindi non è tesa a cercare qualcuno cui affidarsi».

Una crisi “metafisica”
Sicuramente don Gnocchi con la smisurata carità che ha segnato la sua esistenza, ha indicato la strada per un approccio più umano alla disabilità fisica e mentale, per un recupero pieno della dignità della persona. E questo dopo i disastri della guerra, che aveva distrutto in tanti la coscienza di considerarsi integralmente appunto persone, sia pure mutilate e ferite. Ma la guerra aveva anche minato la struttura spirituale e la fede di un popolo, al punto che il cappellano degli alpini vede i germi di un’imminente, possibile dissoluzione dell’umano. Straordinaria la sua capacità di intuire il futuro, la sorte cui la società era destinata di lì a qualche decennio. «La nostra crisi di civiltà è, prima che politica ed economica, una crisi morale, anzi una crisi metafisica», che investe tutti i popoli «perché tocca l’uomo e il suo problema esistenziale». All’uomo contemporaneo per don Gnocchi, «mancano ragioni ferme ed immutabili di vita, valori eterni e non contrattabili che condizionano i valori terreni e contigenti». L’espressione «valori non contrattabili» anticipa i «principi non negoziabili» che saranno affermati da Benedetto XVI. La negazione di tali valori porta a «incoerenza, frammentarismo della vita, irresponsabilità morale, girellismo politico, dilagante disonestà pubblica e privata». Il mondo «non è mai stato così come oggi», riconosce il futuri beato, che tuttavia è cauto sull’utopia della fraternità universale, che rischia di condurre a una strisciante omologazione, alla «standardizzazione del genere umano della culla alla bara», se non è fondata sull’amore. Osserva con lucidità che «il mondo moderno vive a grandi agglomerati: masse urbanistiche, masse operaie, masse scolastiche, masse impiegatizie, masse militari…», Oggi non potremmo aggiungere, masse connesse tramite sociale. Per don Gnocchi c’è chi vorrebbe, «come il supercapitalismo, che tutti gli uomini nascessero della stessa lunghezza, in modo che si potessero fare delle culle standardizzate; che gli uomini andassero vestiti della stessa divisa, che leggessero tutti gli stessi libri, che fossero tutti degli stessi gusti al cinematografo». Ancora una volta, come sono attuali queste parole, scritte in Andante ed insegnante del 1934, l’anno del nazismo e le pratiche di eugenetica ed eutanasia iniziate in Germania.
Strada maestra per tutti
Se non si vuol «discendere sempre più rapidamente verso l’animalità oscura e incosciente»per una Restaurazione della persona umana, bisogna «guarire dalle grossolanità», a cominciare da quelle spirituali, «riacquistare il gusto della interiorità e riprendere la consuetudine con le voci dell’anima» Come? Per don Carlo serve «concentrare l’attenzione dello spirito, non lasciarsi assorbire dalla vita di superficie, stabilire in ogni giornata una zona di silenzio… e soprattutto seguire un metodo razionale e progressivo, come potrebbe essere quello dell’”esame di coscienza”». Dirà il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, alla solenne celebrazione eucaristia per i 60 anni della morte del “papà dei mutilati”, svoltasi il 27 febbraio 2016 nel santuario diocesano intitolato a don Carlo e che ne conserva le spoglie: «È impossibile per noi ambrosiani e per tutta la cattolicità non vedere nella santità di don Gnocchi un punto di riferimento stabile, costitutivo per la nostra fede e una vita che in termini significativi ha marcato nella sua capacità di offerta e di amore, tutta la Chiesa universale». L’esempio del beato Carlo «rappresenta la strada maestra» per vivere il nostro tempo senza paura.

Vincenzo Sansonetti

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