Nella preghiera che Gesù ci ha insegnato chiediamo al Padre di rimettere «a noi i nostri debiti» (Mt 6,12). Abbiamo la certezza di poter essere perdonati: «Per opera del Figlio diletto, abbiamo la redenzione, la rimissione dei peccati» (Col 1,13-14; cf Ef 1,7).
Ma per ottenere il perdono dobbiamo chiederlo, come il pubblicano (Lc 18,13), riconoscendo non soltanto di aver trasgredito la legge, ma di aver rotto la relazione con il Signore (il concetto di debito è relazionale con il Signore (il concetto di debito è relazionale; Lc 11,4 usa il termine più usuale: peccati). «Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce» suplica l’orante (Sale 130,1-2). Consapevole della propria colpa e convinto che questa implichi un castigo, non ha diritti da far valere, ma il ”se”, che introduce la domanda retorica all’inizio del v.3 («Se tu osservassi le colpe, Signore, chi potrebbe stare eretto?»), «rivela che nella logica retributiva interviene qualcos’altro, qualcosa che dipende esclusivamente da Yhwh: si crea un’attesa: forse Dio non sta attento, gli sfuggono i peccati dell’uomo?
Il salmista scioglie subito l’enigma ha formulato la domanda al condizionale, perché è consapevole della possibilità di un perdono da parte di Yhwh» (R. Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 185).
Per due volte dall’abisso in cui è sprofondato afferma di sperare, di attendere con ansia la sua parola (v.5): spera nel suo amore tenero e fedele (v.7). Dire: «Io spero» significa sapere che il perdono e la salvezza sono un dono che non dipende da noi, ma da un Altro: «Abbiamo rotto una relazione d’amore e non siamo in grado di ricostituirla con le nostre forze, se non ci viene gratuitamente ridata» (C.M. Martini, Non sprecate parole).
E l’orante si rivolge al Signore con la soggezione e l’umiltà del servo; grida a lui dall’abisso in cui è sprofondato. Sa che potrebbe non ottenere il perdono, data la gravità dell’offesa («Forse otterrò il perdono della vostra colpa», dice Mosè al popolo in Es 32,30; «Chi sa che il Signore non cambi?» spera Gl 2,13-14): non può pretenderlo quasi fosse un diritto, ma aspetta e spera.
«Non essere troppo sicuro del perdono», avverte Ben Sira, «tanto da aggiungere peccato a peccato. Non dire: “La sua compassione è grande; mi perdonerà i molti peccati”, perché presso di lui c’è misericordia e ira, il suo sdegno si riverserà sui peccatori.
Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno, perché improvvisa scoppierà l’ira del Signore e al tempo del castigo sarai annientato» (Sir 5,5-7).
Per ottenere il perdono occorrono determinate condizioni. Gesù stesso ne pone una nel “Padre nostro”: «Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi: ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,15). È infinita e inesauribile «la prontezza del Padre nell’accogliere i figli prodighi che tornano alla sua casa. Sono infinite la prontezza e la forza di perdono, che scaturiscono continuamente dal mirabile valore del sacrificio del Figlio.
Nessun peccato umano prevale su questa forza e nemmeno la limita. Da parte dell’uomo può limitarla soltanto la mancanza di buona volontà, la mancanza di prontezza nella conversione e nella penitenza, cioè il perdurare nell’ostinazione, contrastando la grazia e la verità, specie di fronte alla testimonianza della croce e della risurrezione di Cristo» (Dives in misericordia 13).
Nel dialogo liturgico iniziale dell’Apocalisse, il Cristo, che ha già dato la vita per tutti e che segue da vicino le vicende delle singole Chiese, chiede una conversione continua, un amore appassionato (cf Ap 2,4-5; 3,15-20): «Sii fervente nell’amore e convertiti! Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,19-20). La confessione e la supplica, dunque, sono già risposta a un appello da parte del Signore e il perdono, che viene dopo il reato, è già in qualche modo «dato prima del reato».
Entrando in relazione di alleanza con l’uomo, ribelle, debole e meschino, Dio «prevede in anticipo la possibilità del tradimento e dell’offesa. È come se Dio prestasse una somma ingente a un pover’uomo, sapendo pertinetemente che non sarà mai in grado di restituirla, e decidendo quindi di rinunciare a priori al diritto di esigerla a tutti i costi.
Questa originaria struttura della remissione diventa storia nel momento in cui il debitore chiede il condono, ma il condono stesso era già voluto dal creditore prima ancora che il debitore si accorgesse dell’impossibilità di saldare il suo conto» (Bovati, Ristabilire la giustizia, 141-142).
RITA TORTI MAZZI