Il 16 ottobre 2016 papa Francesco canonizza cinque nuovi santi, fra i quali Elisabetta della Trinità (1880-1906), monaca carmelitana francese morta a soli 26 anni, la cui memoria liturgica ricorre il 09 novembre.
Una vita ordinaria
Elisabetta (Sabeth) Catez nacque nel 1880 nei pressi di Bourges e presto si trasferì con la famiglia a Digione. Bella e intelligente, Sabeth aveva una volontà d’acciaio e un carattere impetuoso. La morte improvvisa del padre quando Elisabetta aveva solo sette anni, segnò profondamente la piccola, che cominciò a «vincersi per amore» di Gesù, sul quale aveva riversato tutto il suo affetto.
Nel 1891 ricevette la prima comunione e la cresima e, con la grazia dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, ebbe anche una forte esperienza di Dio. In occazione della prima comunione, la priora del Carmelo di Digione le aveva donato un’immaginetta sulla quale spiegava il significato del nome di Elisabetta come «casa di Dio». La bambina ne rimase profondamente colpita: da allora ebbe particolare cura degli ospiti divini presenti in lei.
Nacque così una relazione d’amore con le tre divine Persone (che la santa chiamava familiarmente «i miei Tre»), in maniera particolare con il Maestro divino. Per il resto, Elisabetta è una ragazza normale: ama suonare il pianoforte, fare lunghe passeggiate in montagana e ha delle amicizie molto profonde, che coltiverà anche da monaca.
A quattordici anni avvertì con chiarezza la chiamata alla vita religiosa, ma potè seguirla solo sette anni dopo, divenuta maggiorenne e vinta la stenua opposizione della mamma, che sognava per lei una brillante carriera da musicista. Il 02 agosto 1901 la giovane entrò nel Carmelo di Digione, dove assense il nome di Elisabetta della Trinità, emettendo i voti l’11 gennaio 1903. Colpita dal morbo di Addison, morì dopo una durissima agonia, il 09 novembre 1906.
Un’esistenza teologica
La grandezza della nuova santa non va cercata in opere o gesti straordinari: la sua vita, prima e dopo la consacrazione religiosa, è stata all’insegna dell’ordinarietà. Ciò che è stato realmente straordinario, invece, è quanto la Trinità ha operato in lei, portandola a quella che il teologo carmelitano Antonio M. Sicari ha definito una «esistenza teologica».
Gli scritti di Elisabetta hanno carattere privato: tante lettere, pochi appunti personali, e i due Ritiri (tracce di meditazione quotidiana) scritti nel 1906, uno su richiesta della propria, l’altro come ultimo dono per la sorella Guite (Margherita). In questi testi canta la vita della santa, che vi trasfonde la sua esperienza mistica con molta semplicità.
Dal giorno della prima comunione ella era via via cresciuta nella profondità di un’esistenza sempre più coinvolta nel mistero della Trinità che abita in noi per assorbirci nel suo motto, che proponeva anche alle sue sorelle spirituali. Tale mistero, realtà in ogni battezzato, è l’asse che orienta la vita spirituale della mistica di Digione. L’essere dimora della Trinità fu, per suor Elisabetta, la scoperta del «cielo sulla terra», soprattutto negli anni di vita religiosa. Questo piuttosto l’inizio del suo calvario ma per la presenza di Dio stesso nell’anima, che costituiva la sua pace profonda, anche nella notte oscura dell’anima. Nei primi anni al Carmelo Elisabetta riscoprì il mistero della presenza di Cristo in sé e prese come programma di vita l’immedesimazione con i sentimenti del Maestro divino (cf Fil 2,5). Questo fu il gradino per un passaggio successivo al quale il Signore la preparava, con la scorta della spiritualità di san Paolo, attraverso la lettura e l’assimilazione delle lettere dell’Apostolo.
La vita come liturgia di lode
Nel 1904, mentre la malattia comincia a manfestarsi in tutta la sua gravità, suor Elisabetta rimane folgorata dall’espressione paolina «perché noi fossimo a lode della sua gloria» (Ef 1,12) e comprende che la vocazione e missione di ogni uomo e donna è di essere «l’incessante lode di gloria delle Sue adorabili perfezioni» (Elisabetta della Trinità Ultimo Ritiro).
Inoltre scopre, in Rm 8,29-30, di essere predestinata d Dio, per amore, a essere conforme all’immagine del Figlio anzitutto nella sofferenza, per esserlo poi nella gloria. Questi duepilastri sono la struttura della sua vita spirituale e faranno giungere a maturazione la sua mistica trinitaria. Da allora in poi firmerà spesso le sue lettere con «Laudem gloriae», che la stessa santa indica come il suo «nome nuovo nel cielo» (lettera del settembre 1906 a Francesca de Sourdon). In questa intuizione possiamo rintracciare un suo tratto particolare: l’essere «a lode della sua gloria» trasforma tuta la vita un’incessante litugia di offerta, di intercessione, di lode, di supplica.
Illuminata da Dio, Elisabetta comprende come l’esperienza stessa della sofferenza non sia altro che una forma di comunione alla croce, diventando per Cristo «umanità aggiunta in cui Egli possa realizzare tutto il suo mistero» (cf «Elevazione alla Santissima Trinita»), per essere configurata al Maestro divino e giungere a poter dire con Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, lavivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso pe me» (Gal 2,19-20).
ANNAMARIA PASSIATORE