Erede della liturgia giudaica (almeno nella forma), la liturgia cristiana ha familiarizzato fin dalle origini con la figura del lettore, quella figura che, in analogia con il ministero dei profeti veterotestamentari, pone Dio in condizione di colloquiare con l’assemblea cultuale. La funzione ministeriale del lettore è quella di proclamare la Parola di Dio alla comunità celebrante in maniera pienamente intelligibile, con dignità e chiarezza.
È una funzione semplice da comprendere, difficile da realizzare e raramente assolta come si dovrebbe. Infatti essa non consiste tanto nel leggere il testo, quanto nel leggerlo in modo da farlo comprendere. È la voce di Cristo che va intesa nella voce del lettore in quanto «egli è presente nella sua parola, giacchè è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC, n.7). Non si tratta solo di leggere un testo davanti a un gruppo di persone, ma di farsi portavoce di Dio che parla al suo popolo.
Attraverso il lettore, Dio ristabilisce ogni volta il dialogo con il suo popolo. Ciò dovrebbe rendere consapevoli del grande servizio che il lettore è chiamato a offrire alla comunità radunata. L’atteggiamento della sua persona, la voce, l’espressione che conferisce alla lettura, facilitano o impediscono l’accoglienza del messaggio divino, ostacolano o permettono il dialogo di salvezza.
La tradizione cristiana affidava volentieri il ministero di proclamare la Scrittura ai fedeli che avevano confessato la fede durante le persecuzioni. Ciò potrebbe significare per noi oggi che la voce dei lettori dovrebbe essere altrettanto convincente quanto la voce dei martiri. La prima edizione del Messale romano (1969) dopo la riforma liturgica, permetteva alle donne di leggere la parola. La questione principale che si pone non concerne, infatti, l’alternanza di lettori uomini o donne, ragazzi o adulti, ma riguarda la Parola di Dio in se stessa: che sia letta nel modo migliore possibile e che la comunità la riceva anche nel miglior modo possibile.
Nessuno ha il monopolio della Parola di Dio, per cui è auspicabile che nella comunità vi sia una pluralità di lettori ben preparati. Non dovrebbe succedere, come ancora spesso accade, di vedere lo stesso lettore proclamare la prima lettura, il salmo responsoriale, la seconda lettura e anche il Canto al Vangelo, livellando tutto nel grigiore di una recitazione monocorde. Saper leggere non è sufficiente; si tratta di entrare in comunicazione con un’assemblea e di far comprendere il testo che spesso non è immediatamente accessibile e di facile comprensione. Le premesse al Lezionario raccomandano: «Perché i fedeli maturino nel loro cuore, ascoltando le letture divine, un soave e vivo amore della sacra Scrittura, è necessario che i lettori incaricati di tale ufficio, anche se non hanno ricevuta l’istituzione, siano veramente idonei e preparati con impegno .
Questa preparazione deve essere soprattutto spirituale; ma è anche necessaria quella propriamente tecnica. La preparazione spirituale suppone almeno una duplice formazione: quella biblica e quella liturgica. La formazione biblica deve portare i lettori a saper inquadrare le letture nel loro contesto e a cogliere il centro dell’annunzio rivelato alla luce della fede. La formazione liturgica deve comunicare ai lettori una certa facilità nel percepire il senso e la struttura della liturgia della Parola e la liturgia eucaristica. La preparazione tecnica deve rendere i lettori sempre più idonei all’arte di leggere in pubblico, sia a voce libera, sia con l’aiuto dei moderni strumenti di amplificazione». (OLM, n.55)
È bene sempre familiarizzare con il testo da leggere, evitando di affidarsi all’improvvisazione di un qualsiasi volontaro scelto all’ultimo momento. L’antica tradizione ebraica rivolge, a tal proposito, preziosi ammonimenti, utili per noi oggi e sempre: «Un giorno il capo della sinagoga chiamò Rabbi Aquiba per fare la lettura pubblica della Torah. Ma lui non volle salire (all’ambone). Allora i suoi discepoli gli dissero: “Maestro, non ci hai insegnato che la Torah è vita per te e lunghezza di giorni? Perché hai rifiutato di agire di conseguenza?”. Rispose loro: “Per il culto del tempio! Ho rifiutato di fare la lettura unicamente perché non avevo prima letto due o tre volte il testo.
Giacchè uno non ha diritto di proclamare le parole della Torah davanti all’assemblea se non le ha dette prima due o tre volte davanti a se stesso. È così che agisce anche Dio…”. Quando fu sul punto di dare la Torah agli Israeliti, Dio, come è detto in Giobbe 28,27, la vide e la misurò, la comprese e la scrutò appieno. Poi, si legge nel versetto seguente, la diede all’uomo».
Nel racconto veterotestamentario della liturgia della Parola descritta da Nemici 8,1-8 emerge con particolare insistenza la nozione di intendere (cf. Ne 8,2.3) e di far comprendere (cf. Ne 8,8). Tale nozione collega in stretto rapporto lettore e assemblea e dimostra come l’uno sia fatto in funzione e su misura dell’altra. Radunandosi per ascoltare la Parola di Dio, l’assemblea non può in alcun modo prescindere dalla ministerialità di colui che è chiamato a far parlare Dio. Se passiamo dalla liturgia raccontata nel libro di Neemia alle nostre liturgie, non facciamo fatica a riconoscere che oggi, almeno nel contesto moderno-occidentale, l’intimo nesso tra lettore e assemblea si sia alquanto allentato. Una delle cause potrebbe essere il fatto che la comunicazione visiva ha sopraffatto quella uditiva e la meditazione dell’occhio appare più diretta rispetto a quella dell’orecchio. Il risvolto negativo di tale comportamento è che l’occhio e la visione finiscono per ridurre le risorse dell’interiorizzazione, che invece l’orecchio e l’audizione tecnica dei lettori. Pur non negando la loro utilità immediata, forse bisognerebbe avere il coraggio di impegnarsi a fondo in un’autentica pastorale liturgica della Parola di Dio. È il lettore che durante la proclamazione della Parola fa l’unità dell’assemblea, per cui occorre valorizzare la sua funzione ministeriale ed evitare di disperdere l’attenzione dei fedeli.
Ricordiamo che la Costituzione liturgica ha prospettato il ministero, non più come protagonismo esasperato di un solo, bensì come compagine articolata di funzioni, affermando che «nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (SC, n. 28). Ha espressamente voluto che «affinchè risulti evidente che nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi, nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta» (Sc, n.35). Per ovviare alle carenze e ai problemi accennati è necessaria un’attenzione senza sosta alla formazione liturgica permanente, quella formazione che i Padri conciliari non si sono stancati di raccomandare per non cadere negli abusi, nella creatività malintesa, nella faciloneria degli innovatori e nel fondamentalismo dei nostalgici: formazione dei docenti di liturgia, formazione liturgica dei giovani nei seminari e nelle facoltà, formazione permanente per tutti, sacerdoti e laici, che aiuti a penetrare sempre più profondamente nello spirito della Chisa in preghiera.